Testimonianze

Marco Goldin:

Ciò che vien prima della sera

(…)Ci siamo conosciuti nell’autunno del 1989 (e perdono se ho voglia di raccontarlo ad alta voce, ma sarà forse per la giornata di nebbia, al principio di novembre, e rada pioggia che mescola le cose anche quassù, dove le alte colline cominciano a cedere alle montagne), proprio a Conegliano. Scrivo adesso accanto a un tuo grande pastello, che fu l’immagine di copertina di una mostra a Treviso qualche anno fa. Una delle cose più belle che hai realizzato: due grandi palme abbacinate dall’ombra contro un muro giallo tempestato dalla luce e dal buio, contro un cielo azzurro screziato d’invisibili nuvole. So che al piano di sotto, sopra la credenza in cucina, c’è un tuo paesaggio di formato orizzontale. Vi è dipinta la campagna attorno Sciacca, dentro quel lume che è di ciò che intende presentarsi. Paesaggio svuotato di ogni presenza, solo natura nella sua essenza che conduce all’eternità. Sì, perché più che non sembri hai sempre tenuto forte questo contatto con ciò che non svanisce nel tempo dell’ora, ma si perpetua come fuoco mai spento, come cenere colorata che continui ad ardere sotto le sembianze di una scomparsa. Ho amato questo tessuto del colore, quel mantello disteso sul mondo, pelle ora levigata ora frastagliata della pittura, e del pastello. Ne hai tratto silenzi e brusii, voci inattese nel mezzo della notte e quelle parole sono diventate stelle, firmamenti, correnti di venti mentre si alza la luce del giorno, e il pallore dell’alba è una cipria che circonfonde la visione. Mi piace pensare alla Sicilia come a un riparo, il porto che si offre ai naviganti nell’istante preciso della tempesta. Mi piace che esista questa oasi per me di pace. Che ormai è solo un sogno, lo spazio di una lunga attesa, che certo questi tuoi paesaggi riempono. Ho bisogno di tornare a queste luci, che sono state parti così importanti della mia vita. Queste luci guardate insieme tante volte dalla tua casa alta sul mare di Sciacca. Luci come stelle, lune affioranti dall’acqua, come barche di pescatori rientranti sciabordando lente tra le banchine. Queste barche, ali sollevate dal mondo, perse in una distanza che dalla costa nemmeno si può immaginare. Sollevate come stelle, al di qua e al di là del nero della notte, del suo buio. Contare tutti i punti lontani e confondere ciò che sprofonda e ciò che resta sospeso. Il senso del volo e quello del navigare. Come cose di uno stesso tempo, ma scoperte da punti diversi. Hai in quel giorno di maggio disposto diligentemente i quadri attorno al cavalletto, lungo le pareti dello studio. Uno per uno issandoli proprio sul cavalletto, perché infine si potessero vedere sotto la luce migliore, seduto com’ero sulla poltrona di pelle nella stanzetta vicina. Guardavo i quadri che lentamente si succedevano, ma guardavo anche, oltre la finestra, il luccichio dorato del sole sulla distesa silenziosa del mare. I primi caldi di Sicilia, le sere trascorse all’aperto, la libertà dello spazio, l’insistenza del destino su di noi viaggiatori. Non riesco a guardare questi tuoi quadri, Vincenzo, senza che questa febbre dolcissima dei luoghi mi assalga, mi prenda, faccia di me colui che non vorrebbe smettere di viaggiare. E verso la tua terra, soprattutto, dove il mare è un solo sguardo levato verso l’immenso. Dove la terra fiorita di lune e palme è un giardino aperto sul mondo. Sempre così ci si fanno incontro le ere, le stagioni, i più semplici giorni. Nella appagante luce serale che illumina nascondendo le cose, le rende tutte libere di appartenere al regno delle tenebre e a quello ugualmente della chiarità. Tutto insieme viene così il mondo, e non saprei distinguere da dove nasca tanta bellezza, quella che tu ogni giorno, ancora, ostinatamente adagi sul foglio, sulla tela. Ho sempre pensato che essere pittori in Sicilia, dentro quel tempo, dentro quella luce, sia più difficile che altrove. Perfino esagerato il confronto con l’assoluto, con una bellezza che è straziante e felice insieme. Ma tu riesci a tenere questa bellezza dentro le opere, a farla parlare nel silenzio di un incanto. E sempre più manifesti questa tua disposizione a vivere nella bellezza, come se un tempo finalmente eterno avesse avvolto la tua pittura. Mi pare in effetti questa la vera novità del gruppo di opere recenti che presenti adesso a Conegliano. La dimensione del tempo sospeso, come di un Monet alla fine della vita, affacciato ancora sullo stagno incantato di Giverny. La tua pittura si è sottratta alla nota di diario quotidiano, ha perso il senso dell’appunto, si è immessa nella vastità dilagante dello spazio universale. Eppure, senza rinunciare alla sua peculiarità di essere colore di quella terra, la terra di Sicilia davanti al mare. Ci sono adesso quadri bellissimi tra gli altri. Nei quali questo senso dell’infinito, nella luce di un meriggio, si tramuta nella bellezza che affiora su un mare che è del sogno piuttosto che della realtà. Quel mare blu che è un lago di cielo su cui galleggia un lume di luna. Spandendo il suo fioco scintillio dentro la notte, accesa di lampi, apparizioni, ricordi. Questo è nel cielo, e tu lo sai.

Da Goldin Marco, Nucci Opere recenti, IX Piccoli quaderni, Linead’ombralibri, 2005

altri che hanno scritto di lui:

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