Aldo Gerbino
Enzo Siciliano
Francesca Bonazzoli
Guido Giuffrè
Marco Goldin
Philippe Daverio
Roberto Tassi
Sebastiano Grasso
Stefano Malatesta
Vittorio Sgarbi
|
Aldo Gerbino:
Pollini, Raggi
Un corpo denso, di pietra, quello che circoscrive il muro attorto lungo la casa padronale. Al suo apice svetta la palma, sovrastata da un alone di assorta quiete, mentre cola, dal recinto tramato di muschi e licheni, il liquore aspro della buganvillea. In basso, nel tremolare di un disperso manipolo di raggi, tra ombre intricate di radici, s’inerpica il pistillo nella notte. L’arbusto, la sterpaglia compressa dagli anni, riflettono ora il cielo terso, l’azzurro aprìco della Sicilia, ora la creta soave della terra, ora lo scudo fiammeggiante del palazzo dalle stanze mute, dagli angoli corrosi, dai tetti incavati dal tempo. Su tutto sembra distendersi una patina surreale di pollini, un gioco magico dove la natura si stempera nella grazia di un estenuato ricordo, come sopraffatto da quella lacerazione nostalgica che concede quel tanto che basti al passato. Ma è forte e risoluta l’icona di un paesaggio pronto a stravolgere lo stesso pensiero, l’emotività, l’impianto di una visione disposta in un lento sfilacciarsi, fino a perdere frammenti di pulsioni, o lasciare, quasi una scia, un umore schiumoso di chiocciola, di cometa, tracce appena consunte, appena percepibili. Ciò che colpisce è soprattutto la trama convulsa e tangibile, la quale mostra, come in trasparenza, l’architettonico sogno della biologia, la sua vibrante impalcatura, il tessuto del mondo vegetale, e d’ogni cosa che l’abita. E da tutto questo si leva un impalpabile frinire, un ticchettio, un batter di chele, un frullare d’ali, uno stropiccio di elitre, l’abbaglio d’una efflorescenza, il precipitare d’una bacca, l’incavo della foglia che accoglie la rugiada, lo stelo, il bocciolo, il dramma rutilante del fiore, che tutto avvolge e sconvolge, che ogni luogo ricama e rannicchia come in un bozzolo, misterico baccello chiuso nei suoi raccolti suoni. E’ da questi velami naturali che si dipana il canto dei pastelli di Vincenzo Nucci, in una omogenea e lievitante poeticità; ora, più che negli anni ottanta, più densi, meno inclini al segno per segno, ma più esigenti sul versante della materia. Una materia, infatti, che s’impegna sulla sponda del tatto e dell’olfatto: sulla percezione rapida e incantatrice, sulla sua evocazione, capace di arroccarsi sul baluardo del proprio interiore monologo, dove l’uomo non può che guardare e sommergersi nella sublime attrazione della natura. Essa, infatti, ci sovrasta nella sua immanenza. Ci accoglie, ci assorbe. In questo fluire di elementi lo scoramento pervade, ma fa anche la sua apparizione l’incantevole presagio d’ogni nuova impressione di luce.
(in catalogo della mostra personale, Centro culturale Pier Paolo Pasolini, Agrigento, 1998).
altri che hanno scritto di lui:
Maria Attanasio, Lucio Barbera, Giovanni Bonanno, Francesca Bonazzoli, Liana Bortolon, Antonio Calabrò, Silvia Carrer,Elvira Cassi Salvi, Martina Corgnati,Philippe Daverio, Silvia Dell’Orso, Fabrizio Dentice, Valentina Di Miceli, Eva Di Stefano, Angelo Dragone, Francesco Gallo, Aldo Gerbino, Carlo Giacomozzi, Guido Giuffrè, Marco Goldin, Franco Grasso, Sebastiano Grasso, Piero Guccione, Paolo Levi, Stefano Malatesta, Dario Micacchi, Angelo Mistrangelo, Elisabetta Muritti, Paolo Nifosì, Laura Oddo, Maria Teresa Prestigiacomo, Giuseppe Quatriglio, Aleardo Rubini, Ruggero Savinio, Anna Maria Schmidt, Giuseppe Servello, Vittorio Sgarbi, Enzo Siciliano, Roberto Tabozzi, Roberto Tassi, Sergio Troisi, Emilia Valenza, Marco Vallora, Marco Valsecchi, Tono Zancanaro.
|